Non sappiamo bene dove stiamo andando ma ci servono “parole per cambiare rotta”

Il giorno in cui conobbi il mondo degli affari era una mattina, direi d’autunno, e avevo sette anni. Mia madre mi portò con sé in ufficio e ci tenne a farmi conoscere il capo.
Il capo era un uomo sulla quarantina, giacca e cravatta e vistosi bracciali d’oro ai polsi.
Mi avvicinai, strinsi la mano e dissi “piacere”, seguito dal mio nome come mi avevano insegnato.
Lui disse: “no, ragazzino. Torna qui. È così che un uomo stringe la mano” e così dicendo mi stritolò per qualche istante, facendomi venire in mente quello spiacevole gioco che facevano a scuola strizzandoti il braccio e facendoti venire i formicolii dappertutto.
Terminata la manipolazione della mia giovane mano guardò mia madre, con uno sguardo che pareva evidenziare l’aver insegnato una lezione.
Aggiunse qualcosa riguardo al fatto che saper stringere la mano era una delle cose più importanti nella vita e che nessuno mi avrebbe mai preso in considerazione senza una stretta forte da uomo.
Io lo guardai in faccia, dissi di aver capito. E pensai fosse un coglione.

Una decina di anni dopo, un paio di giorni dopo un incidente in moto che mi aveva lasciato varie cicatrici alle mani, dopo aver accompagnato la mia fidanzatina, venni invitato a conoscere i suoi parenti. Tra questi c’era un ragazzo alto e grosso, con una mascella alla Clooney ma ancora più marcata, meno aggraziata, direi proprio brutta e cattiva.
Pronunciò il suo nome stritolando la mia mano in una morsa d’acciaio e quando finì di presentarsi mi ritrovai la mano sanguinante: le ferite si erano riaperte.
Qualche giorno più tardi, parlando e ridendone insieme, lei mi disse che non voleva farmi male ma “lui è fatto così”.
Io annuì e pensai la stessa cosa di quel giorno in ufficio: “è un coglione”.

Strette di mano e regole di vita

Pensandoci credo di aver subito un qualche tipo di trauma. Perché odio stringere la mano alle persone, credo di rientrare in quel genere di mani mollicce che vengono prese in giro, e penso di essere, in tempo di pandemia, la persona più a suo agio al momento dei saluti.
Ma penso anche che la storia della stretta di mano sia una di quelle lezioni che le persone pensano di dover dare al prossimo e che poi diventano le regole del gioco. Per tutti.
Succede che qualcuno incontra qualcun altro, che quel qualcuno dica che la mano si stringe forte, e quel qualcun altro lo dica a qualcun altro ancora. Sino al tizio che ti stritola la mano per dimostrare quanto è uomo e quanto di successo.

Un meccanismo di questo tipo credo si verifichi con tante altre cose.
Un tizio compra una casa e dopo qualche anno la rivende realizzando un discreto profitto. E così inizia a dire in giro quanto “il mattone” sia redditizio e l’unico investimento intelligente. E tanti tizi iniziano a dire e fare lo stesso, sino a quando tutti continuano a dire che bisogna comprare case. Perché è quello che conta.
Un altro vuole fare il calciatore ma viene scartato ai provini e si ritrova in fabbrica triste e depresso. Inizia a dire che la vita fa schifo, che le passioni sono spazzatura e bisogna metterli da parte. E così sino a quando tanti altri tizi, si incontrano, si stringono forte la mano, e iniziano a dire lo stesso: pensa da adulto, pensa alle cose concrete.
Di tizi il mondo è pieno e dunque potremmo continuare per un bel pezzo.
Come il tizio che ha preso la laurea ma non ha trovato lavoro, e dice che la laurea è un pezzo di carta che non serve a niente. Ma anche quell’altro tizio, quello che con la laurea ha superato il concorso, e preso un posto fisso e sicuro, e ti dice che “sarà… ma serve sempre un pezzo di carta”.
Il tizio che ti dice che devi farti una famiglia. E quello che ti dice che le donne sono solo problemi.
Il tizio che ti dice di puntare sul rosso, quello che ti dice di puntare sul nero.

I tizi si parlano spesso e creano veri e propri dogmi, come le strette di mano. Ma a volte no, non si incontrano, non si mettono d’accordo e dicono anche cose completamente diverse.

Per farla breve, siamo la somma delle persone che incontriamo, delle mani che stringiamo, delle parole che ci sentiamo ripetere e del significato che ci dicono bisogna attribuire.

Il manager con il trolley sbagliato

Circa quindici anni dopo la disavventura con il tipo con la faccia da Clooney, mi trovavo a Milano, in un’aula ad ascoltare storie di innovazione. A un certo punto comparve un relatore diverso dagli altri. Salì sul palco con un paio di jeans, una camicia sbottonata e una maglietta bianca. Mi fece la stessa impressione di quella volta che a scuola si presentò un giovanissimo supplente di storia dell’arte: ricciutissimo, spettinatissimo, completamente fuori contesto rispetto ai professori di sempre.
Anche quel relatore lì faceva lo stesso effetto. E, dopo tante storie ordinate di innovazione, era un bell’effetto.
Iniziò raccontando dei suoi voli continui tra l’Italia e Londra, tra l’Italia e gli States.
E poi, raccontò di un buffo incidente.
Si trovava all’aeroporto e mentre cercava di risparmiare tempo, come fanno a quanto pare i frequent flyer, quando il suo nuovo trolley si rivelò troppo alto per passare il check in.
Spinse senza successo una dozzina di volte, sfidò con lo sguardo lo steward come in un film western, sino a quando, stremato, non strappò via la maniglia del trolley e vinse lui.
Detta così non rende ma vedere quell’uomo di successo diventare rosso mentre lo raccontava fu qualcosa di illuminante.
Vedevi bene l’ossimoro: una persona distinta che distrugge il suo trolley e vince. Ha vinto o ha perso?
In seguito, come continuò a raccontare lo strano relatore, iniziò a ragionare sui motivi che lo portarono a una quasi zuffa con lo steward, distruggere il suo stesso trolley, rompersi un’unghia e rischiare un infarto.
La risposta non fu articolata come si potrebbe pensare. Fu una sola parola: tempo.
La cosa interessante però non è tanto la parola, “tempo”, ma il fatto che qualcuno spiegasse le sue scelte e le sue battaglie con le parole.
Il messaggio che quel giorno ricevetti da quello strano personaggio, fu che tutto ciò che facciamo è dettato dalle parole che seguiamo ogni giorno. O meglio da quelle che sentiamo ripeterci e, un bel giorno, ci ritroviamo a far nostre senza più farci domande. E no, non si tratta qui di “segreto”, di legge dell’attrazione. Ma di parole che iniziamo ad usare parlando delle nostre vite e poi diventano l’unica mappa e il modo con cui ci mettiamo in viaggio. Pensandoci bene, diventano il viaggio.

Propose dunque di fare un po’ di manutenzione.
Quali parole governano le nostre vite? Chi le ha scelte quelle parole? Vanno bene per noi? E anche se in passato hanno funzionato, oggi ci fanno ancora stare bene?

Mentre finiva il suo discorso io avevo già smesso di seguirlo. Avevo iniziato a scarabocchiare un paio di parole alla rinfusa. Partendo da quelle che mi avevano portato lì.
FormazioneNordLaureaOpportunitàConoscenze.

All’epoca avevo già due figli ma stentavo a trovare un posto sul mercato ed ero ormai in una fase precoce di rimpianti. Avevo mollato l’università a un paio di esami dal traguardo, bruciato soldi con un paio di attività andate male, inseguito i sogni e schiantato contro i muri. In quel momento mi trovavo in quell’aula per rimediare, ammettendo avessero ragione loro.
I tizi che da anni mi ripetevano che serve “formazione”, che al Sud non farai mai niente e devi andare al “Nord”, che nella vita vai avanti solo con le “conoscenze”, e le opportunità non si trovano affatto nel digitale ma con poderose strette di mano.

Quelle erano le parole che mi avevano portato a seguire un corso, a fare networking, progettare di trasferirmi a Milano, e cercare “perfino di trovare un lavoro” .
Solo che mentre il tizio parlava mi accorsi che quelle parole non erano affatto le mie.

A me piace il mare, non il Nord. E in fondo non cercavo chissà quale opportunità, cercavo solo un modo appassionante per giocarmi la vita. Non sono a mio agio con le “conoscenze”, ma mi piace essere amico di poche persone con cui creare “relazioni”. E sì, anche a distanza.

Parole per cambiare rotta

Venti anni dopo il tipo alla Clooney, cinque anni dopo il manager in jeans. Ci troviamo in un mondo senza strette di mano.
Come su un tapis roulant qualcuno di nascosto ci ha aumentato la pendenza. È complesso. È un casino. È sfiancante. E non sappiamo quando ne usciremo.
Ma se c’è una cosa su cui possiamo scommettere è che indietro non si torna. Non ci sarà nessun ritorno alla normalità. Sarà una nuova normalità.
Una nuova normalità in cui, si spera, avremo parole nuove. Parole nostre.
Senza persone che ci dicano come stringere la mano o cosa seguire per avere “successo”.

Se c’è stato un momento migliore per rivalutare le nostre vite e fare manutenzione delle nostre parole, è questo qui. Adesso.

E quel manager strano*, che con il tempo ho avuto la fortuna di conoscere meglio e chiamare amico, non poteva scegliere miglior momento per farci un libro.

“Parole per cambiare rotta”. Eccolo qui.

Ce l’ho accanto a me, sulla scrivania da dove sto scrivendo, in una casa di campagna, al Sud; mentre provo a giocarmi la mia vita con vista mare e parole tutte mie.

Grazie David.

*David Bevilacqua è amministratore delegato di Ammagamma, società di data science e Ai. Ha lavorato in Cisco per 20 anni ricoprendo ruoli apicali, in Italia e all’estero (Vice President Europe, AD Italia General manager per l’Est Europa e VP Sud Europa). Nel 2016 ha cofondato Yoroi, di cui è stato AD & Chairman.

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